martedì 28 luglio 2009

Io non ho paura


Io non ho paura di Gabriele Salvatores (2003) Dal romanzo di Niccolò Ammaniti, Sceneggiatura di Niccolò Ammaniti, Francesca Marciano Con Giuseppe Cristiano (Michele), Mattia Di Pierro (Filippo), Adriana Conserva (Barbara), Fabio Tetta (Teschio), Giulia Matturo (Maria), Stefano Biase (Salvatore), Fabio Antonacci (Remo), Aitana Sánchez-Gijón (Anna), Dino Abbrescia (Pino), Giorgio Careccia (Felice), Antonella Stefanucci (Assunta), Riccardo Zinna (Pietro), Michele Vasca (Candela), Susi Sánchez (la madre di Filippo), Diego Abatantuono (Sergio) Musica: Ezio Bosso, Pepo Scherman Fotografia: Italo Petriccione (108 minuti) Rating IMDb: 7.6

Aurelio Tagliabue

LA DOLOROSA FINE DI UN’INFANZIA

Un romanzo di formazione
L’avventura estiva di un gruppo di ragazzini che per uno di loro, a sua insaputa, diventerà l’occasione per passare dall’ingenuità infantile ad un grado maggiore di consapevolezza della realtà, è la tematica principale del racconto di Stephen King Il corpo (Stand by me), ma anche del più recente romanzo di Niccolò Ammaniti Io non ho paura, che Gabriele Salvatores ha portato sul grande schermo, con la sceneggiatura dello stesso scrittore. Non c’è nessuna intenzione polemica in questa constatazione, semmai la volontà di evidenziare come l’ambientazione, i personaggi, il contesto che caratterizzano l’opera le assegnino una connotazione di originalità, benché siano riconoscibili in essa gli elementi tipici del romanzo di formazione, al quale appartiene anche il racconto di King. Infatti Michele, il giovane protagonista, si muove in mezzo a tanti falsi maestri, per poi realizzarsi grazie al contributo di un personaggio che, usando in senso lato la terminologia di Vladimir Propp, potremmo chiamare donatore: Filippo, un coetaneo rinchiuso in una buca scavata nel terreno dai suoi rapitori, uno dei quali è il padre di Michele stesso. Sarà dunque per mezzo di questo singolare incontro, che il protagonista potrà fare sua l’affermazione contenuta nel titolo del romanzo.

La trasposizione cinematografica nasce da un felice incontro: da una parte Ammaniti alla sua migliore prova come sceneggiatore , coadiuvato dall’esperta Francesca Marciano ; dall’altra Salvatores che, dopo pellicole poco convincenti, si ritrova particolarmente ispirato. Il regista milanese nel corso della sua carriera in una sola occasione aveva diretto un film tratto da un’opera letteraria , ma in questo caso non ha voluto occuparsi della sceneggiatura, concentrandosi sulla regia; forse è stata proprio questa scelta a favorire la riuscita del film. Per altro la vicenda che il romanzo racconta, contiene tematiche care al regista: il sud, l’incontro/scontro con le responsabilità della vita, il labile confine tra ciò che è legale e ciò che non lo è, l’inconscio e le sue paure… E se Salvatores ha dato il meglio di sé raccontando la propria generazione, Michele, che ha nove anni nel 1978, potrebbe essere il fratello minore che quella generazione guarda con affetto e forse un po’ di invidia.



Lo sguardo di un bambino
Era inevitabile, vista la presenza di Ammaniti fra gli sceneggiatori, che il film mantenesse una sostanziale fedeltà al romanzo. Eppure qualche modifica può essere notata nelle modalità della narrazione. Il narratore dell’opera letteraria è il protagonista stesso, che racconta i fatti a distanza di anni; anche in questo Io non ho paura ricorda The body, ma con la differenza che nel primo non troviamo nessuna traccia di nostalgia per l’epoca raccontata, semmai a caratterizzare la narrazione di Michele è una certa consapevolezza che solo a tratti affiora, in condivisione col lettore. Il punto di vista narrativo del film è invece affidato allo sguardo infantile del protagonista, lasciando allo spettatore la possibilità di intuire ciò che per lui è incomprensibile. Il 1978 è, nella memoria collettiva, l’anno dei tre papi, del rapimento e dell’uccisione di Moro, delle dimissioni del presidente Leone, ma nulla di tutto questo può appartenere alla vita di un bambino di nove anni di Acque Traverse, immaginaria località meridionale fatta di «quattro casette e una vecchia villa di campagna disperse nel grano» . Il film ci immerge nella sua realtà, fatta di gite in bicicletta, partite a pallone, giochi infantili, pomeriggi assolati in cui ci si annoia. Il resto del mondo non esiste: Michele non sa neppure cosa sia il rapimento di un bambino. La cifra stilistica di Salvatores è in questo senso semplice ed efficace, come egli stesso spiega: «La scelta di tenere la macchina da presa a un metro e trenta era necessaria per ritrovare lo sguardo di un bambino che guida il film».

Altre informazioni sono lasciate all’intuito del lettore ed alla sua capacità di interpretarle. Si pensi ad esempio all’ambientazione temporale. La vicenda si svolge, come si è detto, nell’estate del 1978 e nel romanzo lo scopriamo quasi subito. Nel film si può intuire il periodo dall’abbigliamento dei personaggi, da alcune battute, dal TG1 in bianco e nero condotto da Emilio Fede, dalle canzoni provenienti da una fonte sonora diegetica (una radio) e ancora da alcuni oggetti (le cinquecento lire di carta e i numeri dell’Intrepido) che potremmo quasi definire d’epoca.
Lo stesso discorso vale per l’ambientazione locale, mantenuta vaga nel romanzo e che anche nel film si può individuare in modo generico, tramite i dialetti e le targhe delle automobili. Le riprese sono state comunque effettuate nelle vicinanze di Melfi e i bambini che recitano sono originari della zona.
Ci sono infine situazioni in cui la macchina da presa, con un’apprezzabile invenzione di regia, sembra allontanarsi dal punto di vista del protagonista, per andare a cogliere a figura intera qualche insetto o qualche animaletto perduto tra il grano. Lo sguardo non è più quindi quello di Michele, ma è quello del regista che vuol comunicarci che quei paesaggi, quegli splendidi squarci naturali, le cui immagini sono spesso commentate da un tema musicale che ricorda il Canone a tre voci su un basso ostinato di Johann Pachelbel, nascondono numerose insidie. Sotto il bellissimo grano dorato c’è un pauroso buco nero, metafora di «come eravamo» afferma Salvatores «il giorno in cui dall’oro dell’infanzia, siamo dovuti passare al buio dell’età adulta».



Una fuga dalle illusioni
La crescita, il momento di passaggio sono resi evidenti da una serie di netti contrasti: il giorno e la notte, il buio e la luce, l’infanzia e l’età adulta, la paura e il coraggio. Michele si muove in un precario equilibrio, oscillando fra gli opposti o attraversandoli continuamente, come fa quando oltrepassa il filo spinato, per raggiungere il casolare dov’è imprigionato il suo coetaneo. Le prove a cui è continuamente sottoposto possono perciò essere interpretate come un lungo rito di iniziazione: la penitenza, la stanza da letto condivisa con uno sconosciuto, il tradimento di colui che considerava amico, la discesa nel buco-nascondiglio. Ma solo con la disobbedienza al padre, la coraggiosa fuga di notte e la liberazione del nuovo amico Michele perderà l’infanzia. In questo senso si è scelto per il film un finale meno aperto e più consolatorio.
Un elemento fondamentale del passaggio all’età adulta è la disillusione: film e romanzo si fermano prima che Michele possa realizzare di avere in casa l’uomo nero, ma nel romanzo l’occasione della disillusione è offerta dalla bicicletta nuova. Nel processo di sottrazione che quasi inevitabilmente accompagna ogni trasposizione cinematografica di un testo letterario, gli sceneggiatori hanno rinunciato a questa significativa circostanza. Michele possiede una vecchia e brutta bicicletta, ereditata dal padre, che è chiamata Scassona. Per cercare di distogliere il suo interesse verso la scoperta di Filippo, il ragazzo riceverà un regalo: «Era una bicicletta tutta rossa, con il manubrio che sembrava le corna di un toro. La ruota davanti piccola. Il cambio a tre marce. Le gomme con i tacchetti. Il sellino lungo che ci potevi andare in due…Sopra la canna c’era scritto in oro Red Dragon». Geloso ed entusiasta, Michele scoprirà ben presto che «Red Dragon era una fregatura. Non lo volevo ammettere ma era così. Se ti tiravi su, ti trovavi il manubrio in bocca e se cambiavi marcia, se ne usciva la catena». Conoscere la realtà significa abbandonare le illusioni: nella fuga notturna che metaforicamente lo allontana dall’infanzia, Michele userà la Scassona.


Con la precisione e la tenerezza con cui viene ricostruita l’epoca del film per la Scassona è stata utilizzata una Atala 2000, forse il modello meno efficiente nella storia di questo mezzo di locomozione, ma è un peccato che manchi ogni riferimento alla Red Dragon ed alla sua valenza simbolica.
Un’ultima annotazione riguarda il cast. La critica ha sottolineato pressoché all’unanimità la qualità della recitazione, a cominciare dai bambini, tutti esordienti ma spontanei e sempre credibili. Va apprezzata anche la felice scelta di aver affidato la parte di Sergio a Diego Abantatuono, che spicca in mezzo a tanti attori sconosciuti, proprio come Sergio si differenzia, per provenienza, esperienza ed autorevolezza, da tutti gli altri personaggi del romanzo.


2 commenti:

annarita ha detto...

Molto interessante questa acuta interpretazione di un film che ritengo sia stato un po' sottovalutato, forse per le prove non molte felici, come ricordi tu, dalle quali era appena uscito Salvatores. Grazie per l'interessante lettura e salutissimi, Annarita.

Solimano ha detto...

Come etichette a questo post ho inserito, oltre al nome dell'autore del post, del regista del film e dello scrittore del libro, anche la vista logica I bambini nel cinema in cui figurano gà una ventina di post. Presto cresceranno ancora.

grazie e saludos
Solimano